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A Homo faber dove la differenza fra artigianato e design diventa chiarissima

La tradizione intesa come maestria e il lusso come baluardo per preservarla: questo il senso di Homo Faber, la rassegna appena conclusa dedicata all’artigianato dalla Fondazione Giorgio Cini nell’isola di San Giorgio a Venezia. Siamo rimasti incantati nel vedere dal vivo come lavorano gli artigiani. Stregati i visitatori e stregati anche i fabbricatori. Gli uni dalla sorpresa di vedere cose non alla portata del quotidiano, gli altri nell’ipnosi data dalla perfezione del fare.

Dall’alta sartoria di Hermes e Dolce&Gabbana alle casse di orologi incise a mano (A. Lange & Söhne), alle gemme intagliate (Cartier), alle incrostazioni di tessuto finemente fustellato per preziosi vestiti da sera (Maison Lemarié), a mosaici di pelle (Serapian), il punto di partenza è sempre una pietra preziosa, un tessuto speciale, una lamina di metallo.

La bellezza dei materiali perpetua l’uomo fabbricatore. Nei dettagli c’è la genealogia dell’ornamento, dove le tradizioni artigianali vengono tramandate attraverso le generazioni – come recita il titolo di una delle mostre. Sempre diverse ma sempre uguali.

Non c’è innovazione, non c’è design. Alle volte le tradizioni producono perfino oggetti molto brutti. Ne ho visti alcuni nella sezione Next of Europe accanto ad altri molto belli, accanto ad alcuni stupefacenti per il mistero della loro fattura. E in effetti gli stessi curatori (Blanchaert e Boeri) l’ hanno descritta come un “contemporaneo gabinetto delle curiosità”. Piume, alabastro, legno, vetro che la contemporaneità ha riletto allontanandosi dal mestiere per sperimentare l’arte. Un rapporto sempre difficile. A ridefinire l’homo faber ci hanno provato i makers interponendo la tecnologia tra creatività e materia, ma nella rassegna non erano raccontati.

Presenti i fiori, in uno straordinario allestimento effimero dove Ikebana e Vanitas raccontavano la bellezza della natura; la porcellana, celebrata nello splendido sfondo della seicentesca Biblioteca del Longhena, con oggetti in produzione da rinomate manifatture ma anche da ceramisti indipendenti, e per tutti uno: un lavoro (Grégoire Scalabre) composto da 60.000 vasi di porcellana in miniatura tenuti insieme. Impressionante e inutile. Michele De Lucchi presenta una ricerca sulla carta, materiale sempre affascinante per la sua versatilità: origami e vestiti di carta, per rimanere nella tradizione giapponese.

Nella tradizione giapponese si concilia artigianato e design, due straordinarie esposizioni per confermarlo: la mostra dedicata a Bob Wilson e Il giardino delle 12 pietre. L’una, allestita nella piscina del complesso della Basilica di San Giorgio, con costumi e oggetti appartenenti alle scenografie del regista e coreografo americano; l’altra nel Cenacolo Palladiano, al cospetto dell’immenso quadro del Veronese, seppur falso, con oggetti realizzati da 12 Tesori Nazionali Viventi del Giappone, lo speciale titolo che il governo giapponese concede ad alcune persone considerate esempio di importanti proprietà culturali immateriali. Qui percepisce il rimando tra tradizione e tecniche innovative.

Tuttavia avrebbe mancato di capire la differenza tra artigianato e design chi non fosse entrato alle Stanze del vetro a visitare la mostra su FontanaArte dopo aver visitato Homo faber. Si parte dai filmati Luce sulla produzione delle lastre di vetro temperato e si entra nella retrospettiva dedicata all’azienda milanese che non ne avrebbe fatto un uso impensabile se alla direzione artistica non ci fossero stati prima Gio Ponti e Pietro Chiesa, a partire dalla sua fondazione nel 1932, poi il maestro vetraio Max Ingrand dal 1954, e infine Gae Aulenti fino al 1996.

Una lastra di vetro di un centimetro di spessore è facilmente immaginabile come vetrina di un negozio, ma per farne una lampada ci vuole un pensiero che vada oltre. Bisogna immaginare che una sfera possa si possa costruire con una serie di cerchi isometrici, che nella realtà diventano dischi di vetro orizzontali infilati in un diffusore cilindrico, e alla fine un oggetto illuminante e funzionale.  E’ la lampada a sospensione 0024 di Gio Ponti.

Oppure bisogna saper cosa sono i ready made di duchampiana memoria, mettere sotto a una lastra quadrata quattro ruote di bicicletta e inventare un tavolino mai visto. È Tour, di Gae Aulenti, 1993.

Oppure ci si può anche immaginare un’architettura e trovare una soluzione per tenere insieme pesanti  lastre di vetro verticali e orizzontali per farne una libreria. Come? Con dei tiranti d’acciaio. È Teso, di Renzo Piano, 1989.

In tutti i casi qui si parla di design e non di artigianato, di innovazione e non di tradizione. La differenza sta nel distacco dell’autore dalla materia, cosa che permette di guardarla con occhi nuovi, immaginando applicazioni inedite e funzionali alla vita quotidiana. Qui c’è il leapfrog, il salto che attua la discontinuità con la tradizione, c’è il pensiero laterale, c’è l’immaterialità della cultura. Rimane la sapienza delle lavorazioni e la bellezza della materia, ma si accede ad un gradino più alto della capacità umana.

Un lusso, anche questo. E menomale che esiste una categoria di persone con potere d’acquisto tale da permetterselo, altrimenti molte lavorazioni sarebbero scomparse, e forse anche il design. Anche se questo lascia un po’ di amaro in bocca.

(Di Anna A. Lombardicopyright CieloTerraDesign & Obiettivo)

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