“Mitteleuropa” (dal tedesco mittel-medio o centrale): il termine stesso, così geograficamente indeterminato, riporta a un concetto suggestivo ma vago, aleatorio. Lo storico Jörg Brechtefeld, autore di profonde dissertazioni storiche, la delinea semplicemente come ”quella parte che non è oriente e non è occidente”.
L’analogia, etimologica e non solo, spontaneamente richiama la “Terra di Mezzo” della saga “Il Signore degli Anelli”.
In questo romanzo, pioniere del genere fantasy, la Terra di Mezzo, rappresentata in elaborate quanto immaginarie e immaginifiche mappe geografiche, resta tuttavia volutamente indefinita. Tolkien stesso, piuttosto che delimitarla territorialmente entro circoscritti confini, preferì descriverla come “un breve episodio della storia” della terra.
La Mitteleuropa, pur fisicamente individuabile accomunando in prevalenza i paesi attraversati dal Danubio, con aggiunta di Svizzera, Italia e altri in fasi alterne, è più un topos geopolitico che un luogo geografico.
Una trasfigurazione metastorica e metapolitica (Magris), che oggi identifichiamo per lo più con la vaga reminiscenza scolastica dell’impero asburgico.
I mustacchi di Francesco Giuseppe
Questa è l’iconografia residua di quella che fu la Mitteleuropa. L’infelice Carlotta del Belgio e l’Arciduca Massimiliano al castello di Miramare tappezzato di ananas messicani o più ancora la celeberrima Sissi impegnata in sontuosi balli di corte e suo marito, l‘imperatore, in abito da parata, con i folti mustacchi che si congiungono ai curati basettoni, i “favoriti”, a scapito di barba e pizzetto: toeletta stilisticamente complicata, comune agli alti ranghi nobili o militari, e condivisa perfino dagli artisti dell’epoca quali Strauss. E il fasto di Vienna con le imponenti architetture della nuova (1857) Ringstrasse, l’eleganza di Praga, la vivacità mercantile della Trieste di Svevo, la villeggiatura termale di Budapest, le comunità ebraiche economicamente e culturalmente progredite quali presenza comune a ogni paese. Il tutto sotto l’unica, estesa e fragile, ragnatela dell’impero asburgico/austroungarico.
Da “Austria felix” a “Finis Austriae”
Come sia avvenuta la transizione dall’egemonica ‘“Austria felix”, espressione dell’integrazione diplomatica e del rifiuto bellico, alla decadente “Finis Austriae” con la deflagrazione della prima guerra mondiale, è un mistero solo apparente. Apparente in quanto solo apparenti furono l’assenza di conflitti, il superamento dei confini nazionali, la convivenza pacifica di molteplici frammentate comunità. Il pangermanesimo o/e austroslavismo furono in realtà sempre attraversati da carsiche correnti inquiete, sotto una superficie piatta sempre ribollirono rivendicazioni d’indipendenza e autonomia. Fu un mondo che cercò d’inglobare una pluralità di altri mondi minoritari. Decontestualizzandola, oggi, potremmo credere ad un periodo illuminato anche grazie al grande fermento artistico e culturale, ma in verità gli artisti, che sono sempre i primi a captare l’incombere di prossimi sconvolgimenti, manifestarono in quest’epoca tutto il loro disagio. Sotto la patina lussuosa delle residenze imperiali gli intellettuali rappresentarono in modi diversi il malessere esistenziale dell’imminente dissoluzione storica. I germi dell’irrequietezza contaminarono artisti di ambiti differenti, cronologicamente vicini: Kafka, ebreo boemo, raccontò nel 1912 in tedesco la metamorfosi in scarafaggio, nello stesso anno in cui Schiele, vicino Vienna, fu arrestato per i suoi tormentati disegni ritenuti pornografici; tre anni prima, nel 1909, Kokoschka aveva dipinto l’angosciosa “natura morta con agnello morto”; nel 1905 la vedova del barone von Sacher-Masoch aveva reso pubblici i turbamenti lussuriosi dell’autore di “Venere in pelliccia” e nello stesso anno Freud aveva pubblicato saggi scioccanti sulle più intime pulsioni umane; già faceva discutere il “Dio è morto” del prussiano nichilista Nietzsche, e Klimt celava il suo cupo espressionismo sotto la lucentezza dell’oro, per finire con Musil e la decadenza ne “L’uomo senza qualità”. La musica, dalla leggerezza dello spigliato valzer viennese di J. Strauss figlio (nato nel 1825) o dalle rapsodie ungheresi di Liszt, approdò rapidamente alla dodecafonia di Schönberg (nato nel 1874).
Ecco quindi che la cultura otto/novecentesca, in parte anche inconsciamente o involontariamente, conteneva in nuce il prodromo alle guerre mondiali, alla tragica regressione umana, all’aberrazione nazista. Alla tollerante Mitteleuropa seguì infatti la prima guerra mondiale e poi, per estrema antitesi, il catastrofico nazionalismo tedesco. Da non dimenticare che proprio in seno all’Austria felix, nel 1889, nacque Hitler, l’Anticristo nell’allegoria, non dichiarata, di J. Roth.
La cripta dei Cappuccini
Kundera scrisse che “la mitteleuropa è una cultura o un destino”. Storicamente fu
un programma espansionistico troppo ristretto per realizzare una società globale futura e troppo allargato per eludere il retaggio di disomogenee identità territoriali.
Un’utopia sepolta con l’uomo che maggiormente la rappresentò, quel baffuto Francesco Giuseppe, giacente ora nella Cripta Imperiale a Vienna, la Cripta dei Cappuccini nostalgicamente citata dal filoasburgico Joseph Roth, scrittore, nella vita ebreo galiziano esiliato a Parigi ma nella mente sovranazionalista come dovrebbe esserlo ogni cittadino del mondo.
Autrice: Marina Dalla Vedova