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Il suggestivo bunker del Castello di Spessa

La vita e la storia del paese di Capriva sono sempre state legate a quella del Castello di Spessa, dove hanno sempre abitato “i padroni”. Il Castello di Spessa è quella bella costruzione di mattoni color rosso, in mezzo agli alberi, con una torre quadrata, che si vede dal ponte del fiume Versa, sulla sinistra venendo in auto da Cormòns a Capriva della strada statale 56, o meglio ancora dal treno, come scrive la signora Maria Gioitti del Monaco, nel suo racconto “Cormòns con la mude di viarte”: “passiamo i castelli di Russiz e di Spessa, sepolti nella radura degli alberi sempreverdi…”

Il Castello, cresciuto pian piano nei secoli sul luogo ove sorgeva una torre di guardia di epoca romana, ha cambiato più volte fisionomia. Dall’alto della collina gli antichi potevano appostarsi per difendere il passaggio della piana del Preval dai barbari che venivano a cercare dalle nostre parti pane e sole. Vale la pena di raccontare che, a testimoniare l’origine romana del maniero, ai piedi della collina gli archeologi stanno scavando in questi anni per portare alla luce una fornace di duemila anni fa. Si è sempre saputo di questa fornace, tant’è che il luogo si chiama appunto La Fornasate. Già sessant’ anni fa, da piccoli andavamo là col maestro Geàt a cercare pezzi di mattone: io stesso conservo ancora un pezzo di mattonella con l’orma di un cane, che gironzolava indisturbato sugli stampi di argilla fresca dei mattoni. Già intorno all’anno Mille Ottone III, imperatore di Sassonia, aveva dato queste terre al patriarca di Aquileia. Dopo il Settecento, con le battaglie tra Venezia e l’Austria, Spessa era poi finita sotto i Conti di Gorizia. Nel Castello di Spessa sono passati poeti e generali, conti e baroni, vescovi e politici. Hanno dormito lì Giacomo Casanova, il maresciallo Cadorna, il maresciallo Diaz e il re Vittorio Emanuele nella Prima Guerra Mondiale, suo figlio Umberto nella seconda, poi i duchi Aimone e Amedeo d’Aosta, Mussolini, generali italiani, tedeschi, e comandanti serbi, inglesi, indiani e americani.

Ma queste notizie le si trova sui libri di storia e io invece vado in cerca di quello che non è scritto sui libri, vado a cercare la piccola storia non ancora scritta, quella che racconta la gente dei nostri paesi friulani. Come la storia del bunker sotto al Castello di Spessa. Il castello è situato in mezzo alle colline, su un promontorio che si allunga fino al paese di Capriva. È il centro di una azienda agricola moderna che produce vino, tanto vino, di quello che costa caro. E naturalmente il castello ha sempre avuto le sue cantine. Ma i proprietari di adesso, per ingrandire e modernizzare gli impianti, hanno scoperto che lì sotto c’era un’altra cantina, abbandonata, che forse non sapevano neanche esistesse quando hanno comprato il castello e la terra adiacente. Per esigenze moderne di invecchiare il vino nelle botti, di non so che legno, di due ettolitri, affinché acquisisca un buon sapore, hanno fatto gran lavori per collegare con un tunnel la cantina vecchia al livello del cortile con il bunker della Seconda Guerra Mondiale che era lì, dimenticato, 18 metri sottoterra, scavato nella ponca grigia che, dicono, sia la migliore terra per le viti.

Bene. Andiamo allora un po’ indietro con gli anni e torniamo al 1939. L’Italia si preparava a conquistare il mondo e, dalla parte dei Balcani, lontano dai confini con la Jugoslavia (che all’epoca erano a Postumia) il posto giusto per un Comando Generale del Nord-Est era il Castello di Spessa, a Capriva. In previsione di battaglie e bombardamenti, ai generali serviva un posto sicuro, a prova di bomba, e così hanno pensato di scavare un rifugio sottoterra nel cortile del castello. Il Genio militare ha dato l’appalto dei lavori a una ditta di Udine. Direzione militare, ingegneri e geometri civili, operai dei dintorni di Udine, minatori sloveni di Plave e di Canale (e di quelle zone, dove la ditta faceva anche altri fortini per la guerra) e manovali di Capriva e dei paesi vicini. Ci lavoravano notte e giorno, tre turni di otto ore; la paga era di 2 lire e 30 centesimi all’ora. Quelli di fuori dormivano nel Mulino di Giuliano in piazza e andavano a cena nell’Osteria da Natalina. Lavorare di pala e piccone, esplosioni di mine, portare via la terra con la carriola, tirandola su con una carrucola in un carrello di Decauville tramite un pozzo di una dozzina di metri scavato in cortile. Pozzo che una volta era franato riempiendo mezza galleria, senza però far male a nessuno. Hanno scavato così La galleria, come la chiamavano all’epoca, diventata poi Il rifugio e con i tedeschi Il bunker.

7 metri di larghezza per 5 di altezza e più di 60 di lunghezza; tutto un gettato di ferro e cemento   portati dal deposito militare di Aidussina. Il pozzo che era nel cortile lo hanno chiuso da sopra, e da sotto serviva – con l’ausilio di un motore – per l’acqua da bere e per i bagni. Due entrate, di un’ottantina di scalini, una da una parte e una dall’altra. Naturalmente c’erano i carabinieri di guardia, dal 1939 fino alla fine dei lavori nella primavera del 1941. Quelli che vi hanno lavorato raccontano che i carabinieri facevano la guardia, più che ai lavori della galleria, ai quadri, ai tappeti e ai mobili artistici che erano stati portati a Spessa, per salvarli dai bombardamenti, dal Castello di Duino, che era troppo in vista e sul mare. Raccontano che il salone da ballo del castello era ricolmo di quelle cose di valore. Ma forse tutti questi lavori sono stati fatti per nulla. Nell’aprile del 1941, appena finito l’impianto elettrico, messi i motori alle pompe, imbiancato ovunque con la calce, le truppe italiane hanno occupato la Jugoslavia in una settimana insieme con quelle tedesche, scese da Kraniska Gora per l’antica strada da Vienna a Lubiana e a Trieste, quella strada dell’Impero Austro-ungarico che ancora ai giorni nostri si chiama Trieste Strasse, come scritto su un cartello stradale posto alle ultime case della capitale austriaca. Dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943 i tedeschi, arrivati in Friuli Venezia Giulia, hanno trovato nel Castello di Spessa e nel bunker il posto ideale per il Comando militare del Litorale Adriatico, per quel progetto che avevano di fare un “Corridoio” per dare uno sbocco sul mare, attraverso l’Austria, al Terzo Reich. In quattro e quattr’otto i tedeschi hanno rimesso in funzione il castello: rivestimenti di mattoni forati e tavole sulle pareti, stufe a legna dappertutto, pavimenti con i tappeti del castello, tavoli, sedie portati da chissà dove. Uffici con linee telefoniche che arrivavano da tutte le parti. Un osservatorio sulla torretta, alta 22 metri, piena di antenne radio e uomini con cannocchiale che da lassù controllavano le montagne in giro e la pianura fino al mare. Tutt’ intorno mine antiuomo e sentinelle che non scherzavano, tanto che i civili non si avvicinavano di certo per curiosare. Solo noi ragazzi, che qualcosa in guerra avevamo imparato, anche se l’avevamo persa, passando nei giorni di festa invernali con la bicicletta per la strada sotto al castello, avevamo notato la capocchia di alcune mine che spuntava fuori dalla terra fra l’erba secca e un pugno di neve: ma facevamo finta di niente, atteggiandoci a guardare i corvi che volavano tra i pini. Nella primavera del 1945 gli aeroplani alleati, col fronte che era ormai al di qua della Linea Gotica, hanno mitragliato più di una volta i dintorni del castello senza far danni. Una volta un bombardiere che tornava da solo dalla Germania ha sganciato un paio di bombe lì vicino, ma non si è saputo se erano destinate alla ferrovia, che non era lontana, o al castello.

Luigi Michelausig, il cantiniere del castello, ha avuto per anni per ricordo, sul comò della sua camera, due pallottole di mitraglia da 20 millimetri tirate fuori dalla terra sulla stradina del viale del maniero. Un giorno abbiamo visto anche arrivare in castello, nell’auto anfibio con l’elica posteriore per andare sull’acqua, un pilota tedesco di un caccia che era stato abbattuto. Era andata così: era il 2 gennaio del 1945, un cielo come il cristallo. Di mattina erano passati da queste parti 700, dicono 700 contati, quadrimotore, i “Liberator” che andavano a bombardare in Germania. Passavano alti, a blocchi di centinaia di aeroplani, in formazione su 3 o 4 piani, distanti 10 chilometri un blocco dall’altro. Impressionante a vedere che potenza di mezzi avevano gli Alleati! Da non credere, noi che potevamo leggere solo i nostri giornali che raccontavano sempre di potenza tedesca, ma che anche sentivamo di straforo Radio Londra. Così forti, però, non avremmo mai creduto lo stesso anche se erano gli americani.

Rooon….rooon…rooon” facevano andando verso nord e lasciando milioni di strisce di carta di aria per confondere i radar tedeschi. E quel giorno è caduto un pacco di due chili di quelle strisce sulla casa del sarto Nani, avvisata la caserma dei carabinieri di lì, e ha bucato il tetto. Dopo quattro ore fecero ritorno e io e il mio amico Carletto li stavamo guardando con un cannocchiale, che avevamo tirato fuori da un apparecchio di segnalazione lasciato dagli italiani sulla torre del paese. Tornavano indietro su rotte diverse, cercando di tenersi in gruppo per difendersi meglio, a gruppi di 20 o 30 aeroplani, dispersi dalla contraerea tedesca, che avevano incontrato. Ma qualcuno era in difficoltà: solo, rimasto indietro, con una striscia di fumo che veniva dai motori, mentre i caccia tedeschi si buttavano sopra di loro, per mitragliarli.

Da uno di quei quadrimotore abbiamo visto buttarsi fuori col paracadute sette o otto aviatori e l’aeroplano –  l’abbiamo saputo dopo – è andato a cadere vicino Romans d’Isonzo. Ma era stato preso anche un caccia tedesco e l’abbiamo visto cadere – giù a vite e gli siamo andati dietro col cannocchiale finché è precipitato in Boatina, senza prendere fuoco. C’era un mucchio di aeroplani che battagliavano tra loro, a circa 4000 metri, e così ci siamo accorti appena dopo che il pilota era riuscito a buttarsi fuori, e veniva giù piano piano dondolandosi per aria col paracadute color bianco. La Bora lo ha spostato fino alla vicina Mossa, 3 chilometri lontano dal suo aeroplano, là ha toccato terra in un praticello in mezzo agli alberi, quasi nelle mani dei suoi compagni tedeschi del Castello di Spessa, che lo aspettavano a terra per difenderlo dai partigiani che non erano lontani. Lo abbiamo visto arrivare in castello mentre noi andavamo in bicicletta a vedere l’aeroplano caduto dietro la fornace di Cormòns. Era giovane, biondo e bianco in faccia come la tela del suo paracadute, che aveva raccolto dietro di sé.

Nelle ultime giornate del mese di aprile del ’45 i tedeschi erano arrivati alla frutta ma, ancora ben organizzati, presero la strada di casa. Andati via i tedeschi, dopo un paio di giorni sono arrivati a Capriva i Cetnici, quelli di re Pietro di Jugoslavia, e naturalmente anche alcuni di loro hanno trovato il modo di insediarsi nel castello. Quel giorno sono passati per Capriva circa 10 000 di quei soldati, se si può chiamarli così, malmessi: capelli lunghi fino alla schiena perché, a detta loro, avevano fatto il giuramento di non tagliarseli fin quando il re Pietro non sarebbe tornato sul trono. Il comandante di quelle truppe irregolari aveva consigliato a Mino Badin, del paese, che sapeva un po’ di serbo in quanto ci era stato da bambino con suo papà in ferrovia al tempo dell’Austria, di mandare tutte le giovani caprivensi nel rifugio del castello, perché i suoi soldati erano pericolosi e andavano in cerca di donne. Così un bel gruppo di ragazze sono state due giorni chiuse nel rifugio senza mai uscirne.

Dopo due giorni anche i Cetnici hanno lasciato Capriva e il castello, incrociando gli americani che venivano da queste parti, con tutta la loro potenza, dallo stradone di Udine. Appena partiti i Cetnici, il cui odore aleggiava dappertutto, un pomeriggio sono arrivate le truppe alleate, prima gli inglesi e i neozelandesi, e poi gli americani. Naturalmente sono andati dritti al castello senza chiedere la strada a nessuno. Da subito si sono accorti che il parco era pieno di mine: al di qua e al di là del portone, in mezzo agli alberi, sul viale degli ippocastani. Hanno circondato tutte le zone minate con una striscia di tela bianca e si son messi a far festa, che la guerra era finita proprio quel giorno. Festa di giorno e di notte, in castello e in paese, con la gente che era diventata matta di gioia dopo quattro anni di coprifuoco, bombardamenti, morti e paura. Festa, ogni sera si ballava con le “signorine” nel salone del castello fino all’alba.

Per la zona minata avevano dato l’incarico di bonificarla a un maresciallo e alla sua squadra di specialisti dell’esercito italiano, che andava organizzandosi. A quel tempo si poteva andare liberamente e senza problemi visitare il castello, mentre con i tedeschi nessuno poteva entrare. Gli incaricati alla bonifica hanno scavato una trincea a una ventina di metri dai reticolati: dentro ci buttavano una lunga corda con un rampino di quelli per tirare su il calderone caduto nel pozzo. Buttavano il rampino e strappavano via i reticolati, paletti di ferro, tavole di legno, fili del telefono, tutto. Puliti i reticolati, tagliavano l’erba alta del mese di maggio, piano piano per non muovere gli spaghi color verde delle mine che arrivavano all’altezza del collo del piede. Le mine, che erano a filo del terreno, si distinguevano facilmente, così dicevano quei ragazzi, perchè le conoscevano alla perfezione. E tutto è andato bene.

Il conte Segrè e la contessa Sartorio erano tornati a stare a casa loro, nel piano nobile del castello, dopo aver passato la burrasca della guerra da amici a Medea. Al conte era rimasta solo un’auto, trasformata a gasolio: La carbonera, la chiamava l’autista triestino, ma non andava più bene e allora gli americani, quando gli serviva, lo portavano in giro per i suoi affari con la jeep. Quel nobile, già in età avanzata, si divertiva un mondo su quel trabiccolo che saltava come un capriolo sulle buche della strada dissestata. Lo scrivente aveva trovato lavoro per l’estate del 1945 lì in castello: leggeva i giornali al conte che aveva qualche difficoltà di vista e lo accompagnava nei paesi friulani a trovare i suoi amici nobili, a dispensare consigli su come tirare avanti con gli affari e con la politica, lui che era stato senatore del Regno e sapeva tutto. Alle volte toglievo la giacchetta di velluto e i guanti bianchi per servire a tavola e ramazzavo via la sporcizia che avevano lasciato tedeschi, indiani, serbi e americani.

Nella soffitta del castello, grandissima, sotto all’osservatorio della torretta, i tedeschi avevano fatto un comando strategico. Avevano creato un plastico con la riproduzione di tutta la frontiera del circondario, da Tarvisio fino a Pola in Istria. Era un plastico topografico in rilievo, in scala a 50 mila,  messo su un piano inclinato di 12 metri per 4,  per dare la visione generale di tutta la frontiera, quasi come quelli che si vedono nei cinema di guerra americani. Lì vicino, sui tavoli, pacchi e pacchi di serie complete di carte topografiche, materiale che venne in seguito abbandonato, ad esclusione delle radio e dei documenti. Una cosa meravigliosa per uno come me, che aveva fatto la guerra con il libro di geografia nello zaino.

Quando sono arrivati gli americani hanno fatto fotografie di tutto e hanno lasciato che i soldati portassero via un plastico per ognuno da mandare a casa in America per ricordo. Io ho ancora alcune di quelle carte topografiche ancora perfette e quando da giovane andavo in giro con la lambretta le adoperavo sempre perché segnalavano tutti i sentieri tra i boschi e le montagne. Un paio di anni fa ho saputo che il proprietario di una fattoria in California, aveva appeso ad un muro della sala grande, al posto d’onore, un pezzo di quel plastico con le montagne del Friuli in rilievo, portato in dote da sua moglie, una ragazza di quel tempo, una “sposa di guerra”. Ma c’è ancora una storia da narrare. E’ una di quelle storie misteriose che sentivo raccontare in tempo di guerra, quelle poche volte che mi hanno lasciato venire a casa dal paese straniero laddove ero in “campeggio a spese del governo”. La raccontano ancora, dopo 50 anni quelli di Capriva che lavoravano allo scavo della galleria sotto al Castello di Spessa e quelli che l’hanno sentita raccontare. E ognuno racconta qualcosa di suo per farla somigliare più grande, ma una cosa è sicura: è vera! Lavoravano lì tanti giovani, quelli che non erano ancora in età da soldato e naturalmente si parlava di quel lavoro, in casa e fuori casa. Non era incominciata la guerra, ma tutti si immaginavano a cosa sarebbe servito tutto quel gran lavoro. Ma anche all’estero era arrivata la notizia: si sa che i governi si sono sempre spiati l’uno con l’altro.

Allora: in piazza a Capriva era arrivato il circo, più che un circo era una famiglia di saltimbanchi che andava in giro per i paesi a far spettacolo, come usavano quella volta. Avevano piantato la tenda bianca sotto il muro dei mulini, dove adesso c’è il Municipio nuovo. La gente si sedeva sulle panche di legno e una bambina vestita da ballerina, no come quelle di adesso vestite di niente, andava in giro col piatto due o tre volte a raccogliere quelle quattro palanche, ma a volte rientrava in camerino anche con tre uova o due salsicce raccolte di straforo. Per lo spettacolo principale facevano ballare l’orso. Un orso ammaestrato, che saliva da un verso di una scala e scendeva dall’altro e, si drizzava anche su una grossa tavola, posta su cavalletti, mentre il padrone ballava il valzer e il pagliaccio suonava la trombetta.

E come tutti i circhi che si rispettino, di pomeriggio, tutta la compagnia, con i bambini del paese dietro, andava in giro per le borgate a raccogliere gente, con l’orso che batteva i coperchi mentre il padrone lo teneva alla catena. Andavano anche a Spessa e nei casali lì attorno, dove allora abitavano 200 anime. Giravano come nulla nei dintorni del castello a far ridere gli operai del turno pomeridiano. Ma lì c’erano anche i carabinieri e un impiegato della ditta che dicevano fosse il geometra e veniva ogni tanto a vedere i lavori, anche se non sapeva la differenza tra la malta e la betoniera. Quel signore ha aspettato che l’orso e il suo padrone finissero di girare di qua e di là e li ha seguiti fin fuori dal portone monumentale del castello, laddove due carabinieri, fatto il giro dalla parte opposta, lo aspettavano, nascosti dietro i pilastri di pietra. Là ha tirato fuori dalla tuta di lavoro la rivoltella e l’ha puntata nello stomaco…dell’orso. Quello ha alzato le zampe davanti e si è tirato giù il pelo della testa. Era una spia e sotto il pelo aveva una macchina fotografica con la quale aveva fotografato il castello da una parte e dall’altra, i lavori del rifugio da dentro e da fuori. Si è saputo dopo che gli orsi erano due, uno per lo spettacolo e l’altro per spiare, e che dentro al pelo c’era un agente dell’Intelligence service, quell’organismo di spionaggio inglese che aveva gli occhi e la mano lunga per tutta Europa che si preparava per la Seconda Guerra Mondiale e che arrivava anche nel piccolo paese di Capriva, nel bunker del Castello di Spessa.

Questa è la storia vera del bunker del Castello di Spessa, presa dai racconti di quelli che hanno lavorato lì in tempi diversi e messa su da uno quale sono io, che è stato dentro più volte, con soldati di bandiere diverse e che spera che d’ora in poi passino lì sotto solo giornalisti e operatori televisivi, per far sapere a tutti che il Bunker di guerra del Castello di Spessa è servito finalmente a un’opera di pace>.

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Amo l'Arte in tutte le sue declinazioni e follie. Cuore bassanese e castellana d'adozione, rincorro mostre, musei e gallerie sparsi nel mondo che poi recensisco su Storie di Eccellenza. Come artista visiva mi firmo Ketra da quando ho preso in mano la china per poi traghettarmi verso altri media più sperimentali. Agatha Christie, Bauhaus e Siouxsie&The Banshees i miei compagni di viaggio.

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