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I Criticoni – Cronache di due palati (e anime) insoddisfatti

Quando Mirtilla e Monsignor GianFilippo entrarono per la prima volta in un ristorante con l’intenzione precisa di smontare ogni piatto, non sapevano ancora che quella sarebbe stata la loro carriera. Non lo sapevano, ma già lo facevano da una vita.

Lui, GianFilippo, non era davvero un monsignore — ma la tonaca nera con il colletto bianco gli stava bene, e sul profilo Instagram funzionava come calamita per like e commenti. “Un prete che critica il cibo? Geniale!”, scrivevano i follower. La realtà era che, prima di diventare influencer, faceva il bibliotecario, e che il colletto era stato comprato su internet durante una notte insonne passata a guardare video di cucina molecolare.

Lei, Mirtilla, non si chiamava così. In realtà si chiamava Paola, ma “Mirtilla” suonava più dolce e — soprattutto — più indicizzato su Google. Il soprannome le era venuto quando aveva iniziato a pubblicare foto di pancake viola a base di mirtilli, in contrasto con le caption acide in cui spiegava, con tono da filosofa gourmet, perché ogni brunch di tendenza fosse in realtà una truffa.

La nascita della leggenda

Il giorno in cui i due si incontrarono, in una minuscola trattoria di periferia, fu come un cortocircuito. Lei si lamentava perché la pasta era “troppo al dente per essere davvero al dente”. Lui scuoteva la testa davanti a un tiramisù “in cui il cacao sembrava messo con il cucchiaio della minestra”. Sentendosi vicini nello spirito, si unirono in una tavolata comune, e da lì nacque il progetto: recensire ogni ristorante della città non per esaltarlo, ma per evidenziarne ogni minima mancanza.

Non si trattava di cattiveria pura. O almeno, così dicevano a se stessi. Era, piuttosto, una missione educativa: “Se nessuno dice la verità, i ristoratori non miglioreranno mai”, ripeteva GianFilippo. “Se non li correggiamo, continueranno a servire l’acqua a temperatura ambiente”, aggiungeva Mirtilla come se stesse denunciando un crimine internazionale.

Il metodo Crititiconi

Negli anni, perfezionarono una tecnica che avrebbe fatto impallidire un ispettore Michelin.

  1. Ingresso teatrale – Arrivavano sempre con 12 minuti di ritardo, in modo da farsi notare e da obbligare il personale a ripetere la spiegazione del menu.
  2. Sguardo esplorativo – Mirtilla scrutava ogni dettaglio dell’arredamento, annotando mentalmente la quantità di polvere sui lampadari o l’angolo storto di un quadro.
  3. Test dell’acqua – GianFilippo ordinava una caraffa “non filtrata” e assaggiava a occhi chiusi, come un sommelier dell’acquedotto.
  4. Domande-trappola – Chiedevano sempre: “Questo pane è fatto in casa?”. Se il cameriere rispondeva di sì, pretendevano il nome del mugnaio.
  5. Foto in posa arrabbiata – Prima del primo boccone, uno dei due immortalava l’altro con aria dubbiosa. Era il contenuto preferito dei follower.

La paura nei ristoratori

Col tempo, la loro reputazione li precedette. Alcuni ristoratori, vedendoli arrivare, cercavano disperatamente di dirottarli verso tavoli in fondo, sperando che non notassero certe imperfezioni. Altri, più terrorizzati, fingevo di non avere posti disponibili, anche se la sala era mezza vuota.

“Non vogliono accettare critiche costruttive,” sospirava Mirtilla.
“No, hanno paura della verità,” correggeva GianFilippo, mentre fotografava una macchia d’acqua sul bicchiere.

Follower e amici

Su Instagram, il profilo I Crititiconi esplose. Passarono da mille a un milione di follower in meno di un anno. I commenti si dividevano tra chi li adorava (“Finalmente qualcuno che dice le cose come stanno!”) e chi li accusava di crudeltà (“Non vi piace niente, perché non cucinate voi?”).

I loro amici — o meglio, quel piccolo gruppo che sopportava ancora di uscire con loro — erano diventati spettatori fissi di interminabili monologhi. Una cena con Mirtilla e GianFilippo era un’esperienza da documentario: ogni portata analizzata, ogni ingrediente sezionato con la precisione di un entomologo.

“L’olio è buono,” diceva qualcuno, ingenuamente.
“Buono? È commestibile,” ribatteva Mirtilla.
“E la bruschetta è stata servita su un piatto freddo,” aggiungeva GianFilippo, “un errore da principianti.”

La vita difficile dei cercatori di difetti

Se da fuori sembravano vivere un sogno dorato tra pranzi e cene offerti, la realtà era meno idilliaca.
Criticare per mestiere significava vivere in perenne stato di insoddisfazione. I due non si concedevano mai il lusso di dire “Buono”. Troppo pericoloso: i follower avrebbero pensato che si stavano “ammorbidendo”.

In più, ricevevano messaggi quotidiani da fan che chiedevano “potete venire a distruggere il ristorante del mio ex?” oppure “mia suocera cucina male, potete farci un reel?”. Il lavoro era diventato un labirinto di richieste assurde.

L’episodio della trattoria di Nonna Rosa

Il punto di svolta arrivò una sera d’inverno. Invitati — con una certa riluttanza — in una piccola trattoria di campagna, si trovarono davanti una cucina casalinga: tovaglie a quadretti, camino acceso, pasta fresca fatta a mano da Nonna Rosa, ottantadue anni di esperienza.

Entrarono con il solito copione: sguardo scettico, domande pungenti, foto di dettagli sospetti. Poi arrivò la zuppa di fagioli.

Mirtilla la assaggiò, pronta a dire che era “troppo densa per essere una zuppa e troppo liquida per essere uno stufato”. Ma, inspiegabilmente, rimase in silenzio. GianFilippo, che già stava preparando il post mentale con la frase “fagioli cotti fino alla resa”, posò il cucchiaio e si guardò intorno.

Nonna Rosa era lì, in piedi accanto al camino, con le mani infarinate e un sorriso di chi sa che quello è il suo piatto migliore. “Mangiate, figli miei,” disse, “è la ricetta di mia madre.”

Fu un momento strano. Per la prima volta in anni, i Crititiconi non trovarono niente da dire. Non perché il piatto fosse perfetto in senso tecnico, ma perché era… vero. Sincero. Un cucchiaio dopo l’altro, finirono la zuppa senza scattare foto, senza prendere appunti.

La crisi d’identità

Tornati a casa, si sentirono strani. Pubblicare una recensione positiva? Impossibile: avrebbe spiazzato il pubblico. Eppure, criticare quella cena sarebbe stato disonesto. Così decisero di non parlarne affatto.

Ma l’esperienza lasciò un seme. Nei giorni seguenti, cominciarono a chiedersi: “E se stessimo perdendo il senso del mangiare? E se avessimo trasformato il piacere in un compito a tempo pieno?”

I follower, ignari della crisi interiore, continuavano a chiedere sangue: “Distruggete il nuovo bistrot in centro!”, “Smontate lo chef stellato di Milano!”.

La svolta definitiva arrivò qualche mese dopo, quando Instagram cambiò algoritmo. Improvvisamente, i contenuti più virali non erano più le critiche feroci, ma i video di gente che si commuove davanti a un piatto di pasta fumante.

Mirtilla e GianFilippo si guardarono: forse era arrivato il momento di cambiare. Così nacque la loro nuova rubrica: “Lo mangio e sto zitto”. Una serie di video in cui assaggiavano un piatto e, invece di parlare, restavano in silenzio, sorridendo.

Il pubblico impazzì. I follower raddoppiarono. I ristoratori iniziarono a invitarli non per paura, ma per curiosità.
E anche se, dentro di sé, continuavano a notare ogni difetto, avevano capito una cosa fondamentale: a volte, il miglior commento è un boccone in più.

Come scrisse GianFilippo nel loro primo post della nuova era:
“Puoi trovare sempre un motivo per criticare. Ma se smetti un attimo, potresti accorgerti che, mentre cercavi il difetto, ti sei perso il sapore.”

E Mirtilla, sotto, aggiunse:
“Oggi, invece di dirvi cosa c’era che non andava, vi dico che il pane era caldo. E tanto basta.”

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