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GLI INTERISTI TIRANO LO SCOOTER A SAN SIRO. UN RACCONTO sul volo del motorino: anatomia di un gesto ultrà diventato leggenda

C’è stato un tempo, nel calcio italiano, in cui tutto sembrava possibile. Quando gli spalti erano una giungla colorata e rombante, e lo stadio San Siro — quello vero, di cemento e ferro, non ancora gentrificato dai tour guidati e dai bagarini su TicketOne — era un teatro epico dove andavano in scena drammi greci in salsa meneghina. Un tempo in cui non c’erano droni, ma motorini. E c’era chi li faceva volare.

Era il 2001, ma potrebbe essere stato il 1300 d.C., tanta è la distanza antropologica da quel calcio lì. Un’epoca mitologica, che ha prodotto un gesto tanto assurdo quanto epico: il lancio di un motorino Piaggio dal secondo anello verde del Meazza da parte degli ultrà dell’Inter, durante una partita contro l’Atalanta. Un atto che ha sfidato le leggi della fisica, del codice penale e del buonsenso. Ma che è diventato, suo malgrado, un’icona della cultura ultras italiana, e forse — per quanto discutibile — una delle manifestazioni più plastiche del tifo viscerale.

Il contesto: Inter-Atalanta, 2001. Caos in campo e sugli spalti

Facciamo un passo indietro. È il 27 gennaio 2001, Serie A, ventunesima giornata. Si gioca a San Siro. L’Inter affronta l’Atalanta. A guidare i nerazzurri (quelli di Milano) c’è Marco Tardelli, chiamato a raddrizzare una stagione balbettante. In campo scendono nomi da collezionismo Panini: Vieri, Seedorf, Cordoba. Dall’altra parte c’è la Dea, fiera e ruvida, con i suoi tifosi che — come da tradizione — invadono il terzo anello blu con cori secchi e pugni chiusi.

Ma la partita, al netto del punteggio, non sarà ricordata per ciò che succede sul rettangolo verde. Perché sugli spalti succede qualcosa che entrerà per sempre nella letteratura popolare del calcio italiano.

Il motorino rubato, la vendetta, il volo

A raccontarla oggi, sembra una leggenda metropolitana, una “storia da bar sport”, come direbbe Stefano Benni. E invece no: è tutto vero, documentato, ripreso dalle telecamere, immortalato nei racconti degli steward e nei verbali della Digos.

Pochi giorni prima del match, alcuni tifosi atalantini avevano rubato un motorino a un ultrà dell’Inter in trasferta a Bergamo. Un gesto che, nel codice d’onore delle curve, è una provocazione, un affronto, una dichiarazione di guerra. Non si tocca il motorino. Perché il motorino è sacro. È il cavallo di ferro del tifoso, è identità, è ritorno a casa dopo i cori, è l’odore d’olio bruciato mescolato al fumo dei fumogeni.

Così, quando i tifosi nerazzurri (milanesi) si presentano a San Siro per la partita di ritorno, non vengono a mani vuote. Si portano “il maltolto”. No, non quello rubato a Bergamo, ma un altro. Presumibilmente, un motorino sequestrato da qualche garage milanese o forse direttamente dal viale sotto casa di qualche ignaro cittadino. Il modello? Un Piaggio Sì color panna, secondo alcune testimonianze. Ancora con il bloccasterzo e il cavalletto.

Lo portano dentro smontandolo in più pezzi, nascosto sotto striscioni e bandiere, approfittando dei controlli più blandi dell’epoca. Lo rimontano nel secondo anello, pezzo dopo pezzo, come si rimonta un’arma sacra. È un atto rituale, collettivo, un sabba meccanico. Poi, tra cori e fischi, il motorino viene sollevato e lanciato nel vuoto. Un volo plastico, rallentato, simbolico. L’impatto sul tartan di San Siro è fragoroso. Le telecamere immortalano il gesto. Gli spettatori increduli assistono a un evento che ha dell’incredibile.

Il giorno dopo: indignazione, ironia e mitologia

La mattina seguente, i giornali si dividono. C’è chi parla di atto criminale, chi di gesto goliardico, chi chiama in causa la mancanza di controlli, chi scrive pezzi colti sull’antropologia delle curve. I più seriosi gridano allo scandalo: “Si poteva fare una strage!”. E in effetti sì: se il mezzo avesse colpito qualcuno, non saremmo qui a riderci sopra. Ma quel giorno il destino — o il dio del calcio — fa in modo che il motorino cada nel vuoto, lontano da ogni corpo.

L’episodio entra nel folklore, rimbalzato da Mai Dire Gol a Striscia la Notizia, dalle cronache sportive a quelle giudiziarie. Nascono magliette, meme, racconti orali. “Te lo ricordi il motorino? Eh, bei tempi”. Come se fosse una fiaba nerazzurra, versione postmoderna della leggenda di Carlo Magno.

Interisti e Atalantini: nemici fraterni

Ma perché proprio contro l’Atalanta? Cosa c’è dietro questa rivalità? La risposta sta in una sottile frizione geografica e culturale. Milano è la metropoli, Bergamo è la provincia tosta. I bergamaschi si sentono snobbati, i milanesi li trattano da cugini scomodi. E sugli spalti, queste tensioni si amplificano.

Gli ultras interisti vedono nei bergamaschi dei rivali fieri e “di sostanza”, con cui scontrarsi a viso aperto. Gli atalantini, da parte loro, sono tra i più organizzati e tenaci d’Italia. Gli scontri tra le due tifoserie sono sempre stati tesi, accesi, duri. Ma il motorino ha superato ogni limite.

La giustizia fa il suo corso

Il gesto non rimane impunito. Dopo settimane di indagini, la Digos identifica alcuni responsabili. Scattano denunce, diffide, articoli indignati. I colpevoli vengono puniti, ma il gesto resta. Nessuna sentenza può cancellare quel fotogramma. Nessun Daspo può togliere al motorino la sua aura leggendaria.

In quegli anni, le curve erano territori autonomi, zone franche dove vigevano regole proprie. Oggi, con la videosorveglianza, i tornelli biometrici e le schedature, nessuno si sognerebbe di introdurre nemmeno un monopattino, figuriamoci un Piaggio.

Cultura ultras o barbarie?

E qui nasce la domanda: è giusto mitizzare quel gesto? La risposta, ovviamente, è no. Non si può romanticizzare un atto che avrebbe potuto avere conseguenze tragiche. Ma è anche vero che il folklore calcistico ha sempre incluso gesti assurdi, teatrali, eccessivi. Dai petardi di Napoli ai pupazzi impiccati a Roma, dalle coreografie monumentali alle invasioni di campo.

Il motorino non è un esempio da seguire, ma è uno specchio. Di un’epoca, di un certo tipo di tifo, di un’Italia che amava esagerare, anche allo stadio. Una nazione in cui il calcio non era solo sport, ma rito, sfogo, identità. Il motorino lanciato non è un simbolo di violenza gratuita, ma una rappresentazione grottesca dell’esagerazione passionale che ha sempre contraddistinto il nostro rapporto con il pallone.

Il motorino oggi: da oggetto a reliquia

Oggi il motorino non esiste più. È stato distrutto, rimosso, archiviato. Ma vive nella memoria collettiva. Ogni tanto, su Reddit o nei gruppi Facebook, qualcuno posta la foto di quell’attimo sospeso: il motorino a mezz’aria, come una Madonna di Giotto. “Quando il calcio era vero”, commentano i nostalgici.

Alcuni tifosi dell’Inter, scherzando, hanno proposto di erigere una statua commemorativa. Altri, più pratici, vorrebbero una birreria a tema con lo scooter appeso al soffitto. La verità è che quel motorino è entrato nell’immaginario, come il cucchiaio di Totti o la rovesciata di Cristiano Ronaldo. Solo che era fatto da tifosi, non da calciatori. E forse per questo, ancora più nostro.

Conclusione: il volo dell’assurdo

In un’epoca in cui il calcio si è fatto algoritmo, VAR e bilanci, il motorino ci ricorda che — per quanto folle, sbagliato, pericoloso — lo stadio era anche teatro dell’assurdo. Era passione, rituale, eccesso. Il motorino volato giù dal secondo anello non è un modello da imitare, ma un memento. Di ciò che eravamo, per non dimenticare. Perché anche l’irrazionale fa parte del gioco.

E allora, nel silenzio di San Siro vuoto, magari in un pomeriggio di nebbia, c’è chi giura di sentire ancora il rombo immaginario di quel Piaggio in caduta libera. Un rombo di follia, di tifo, di un calcio che non c’è più.

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