Da Maldini a Tonali, da Pioli al naufragio di una rosa di campioni: il Milan ha perso il suo DNA. Tifosi eroi, Furlani contabile, Cardinale assente. E adesso la curva canta: ‘Costruisci lo stadio e vattene via’
I – Il giorno in cui morì il Milan
C’è un periodo preciso in cui il Milan ha smesso di essere Milan. Non è il giorno della sconfitta contro il Bologna, né quello dell’ennesima notte amara europea. È il giorno – nero su rosso – in cui Gerry Cardinale, con la freddezza di un banchiere e l’arroganza di chi crede che i club si governino coi fogli Excel, ha deciso di allontanare Paolo Maldini e di vendere Sandro Tonali. Due simboli. Due colonne portanti. Due identità.
Da quel momento, qualcosa si è spezzato. Il Milan ha perso il suo DNA, il suo spirito, la sua anima. Non è più una squadra: è un insieme di giocatori, alcuni fortissimi, ma senza un collante, senza uno scopo, senza uno spirito comune.
La perdita di Paolo Maldini non è stata solo un errore gestionale: è stata una pugnalata alla storia del club. Maldini non era solo un direttore tecnico. Era la memoria, la gloria, il rispetto. Il suo allontanamento è stato il segnale che il Milan stava imboccando un’altra strada: quella della finanza spietata, dell’algoritmo, dei bilanci.
Tonali, venduto per 70 milioni, è stato il secondo atto del dramma. Milanista, cresciuto con il poster di Gattuso in camera, motore del centrocampo. Via. Svenduto per tappare buchi. Il centrocampo del futuro smantellato per fare plusvalenze.
E poi Stefano Pioli. Il tecnico che ha riportato lo scudetto a Milano, che ha risvegliato una generazione di tifosi. Non era perfetto. Ma conosceva l’ambiente, aveva costruito un gruppo, era riuscito a ridare un’identità. Mandato via senza un piano, sostituito da nomi di basso profilo per paura di confrontarsi con allenatori veri. E così, addio spirito rossonero.
II – Una rosa di campioni senza spirito
E dire che i giocatori ci sono. Anzi: sono fortissimi. La rosa del Milan è tra le migliori in Serie A, forse anche in Europa. Ma una squadra non è solo la somma dei suoi talenti. Serve un’idea. Un cuore. Un’anima. E questo Milan non ce l’ha più.
Ecco i nomi: Mike Maignan, tra i migliori portieri d’Europa. Theo Hernandez, il treno della fascia sinistra, devastante in progressione. Fikayo Tomori, difensore di valore internazionale. Malick Thiaw, giovane roccioso Ruben Loftus-Cheek, potenza e tecnica. Tijjani Reijnders, mezzala moderna.
Davanti? Christian Pulisic, rinato a Milano, Rafael Leão, talento purissimo, a tratti imprendibile. Luka Jović, rinato come attaccante d’area. Samuel Chukwueze, velocità e dribbling.
Anche senza Ibra, questo è un gruppo di valore.
Ma guardali ora. Persi. Senza spirito. Senza identità. Lontani tra loro. È mancato il collante. È mancata la guida. È mancato il DNA Milan. Quello che Maldini incarnava, che Pioli sapeva far risuonare. Quello che Cardinale ha deciso di ignorare.
III – Allenatori mediocri per paura di personalità forti
Il nome che aleggia su tutti è quello di Antonio Conte. L’unico, forse, in grado di prendere questa rosa e farne una squadra. Uno che urla, che pretende, che crea muri spogliatoi contro il mondo. Uno che sa cos’è la vittoria. Uno che ora allenerà il Napoli.
Conte non è mai stato preso in considerazione seriamente. Troppo ingombrante. Troppo costoso. Troppo “leader”. E nel mondo di RedBird, il leader dev’essere uno solo: Gerry Cardinale. Non ci possono essere figure forti accanto al padrone. E così si è scelto di galleggiare. Di cercare allenatori di medio profilo. Di affidarsi a nomi che non mettono in discussione nulla, che non hanno visione, che non costruiscono. Che eseguono.
Risultato? Il Milan ha perso l’ambizione. Ha smesso di voler vincere. Si è accontentato di “competere”, di “stare nei parametri”, di “valorizzare asset”.
E Conte? Al Napoli. In una piazza caldissima, piena di fame, pronta a seguirlo nel fuoco. Sarà dura per tutti. E il Milan sarà spettatore.
IV – Furlani contabile: grande cuore rossonero, ma non basta
Giorgio Furlani è un milanista vero. Questo va detto. Ha cuore, passione, tifo. Ma non basta. Il Milan non si guida con i sentimenti. E nemmeno solo con i numeri. Serve visione sportiva. E Furlani non ce l’ha.
È un manager, un uomo di numeri. Sa fare i conti. Sa bilanciare un bilancio. Ma non sa costruire una squadra. Non sa gestire uno spogliatoio. Non sa parlare ai tifosi nei momenti difficili. Non sa difendere il Milan nelle sedi che contano.
Ha licenziato Maldini per “divergenze gestionali”. Ma le divergenze erano semplici: Maldini voleva una squadra. Lui, un fondo d’investimento.
Furlani è il volto triste del nuovo Milan: uno che ama questi colori, ma che li indossa come una cravatta d’ufficio, non come una bandiera da sventolare.
V – L’unica costante: i tifosi, tra cori eterni e il tema della doppia curva
In mezzo a questo sprofondo tecnico, gestionale e identitario, c’è una sola certezza che resiste: i tifosi del Milan. L’unica vera anima di questo club rimasta intatta, incrollabile, fedele. Loro ci sono sempre. A San Siro, in trasferta, d’inverno e d’estate, con la pioggia e col sole, anche quando la squadra in campo non restituisce nulla. Anzi, proprio in quei momenti i cori si fanno più forti, le bandiere sventolano con più rabbia, gli occhi si incendiano di una fede che nessun fondo potrà mai comprare.
Ma anche tra i tifosi, in questa stagione, qualcosa si è incrinato.
Il dibattito è sottile ma profondo: c’è chi vuole restare fedele alla linea “supportare la maglia, sempre”, e chi invece sente che è giunto il momento di alzare il tiro, di farsi sentire contro la proprietà, contro chi sta trasformando il Milan in un asset freddo. Non è divisione, è una dialettica interna che testimonia quanto il tifo sia vivo. Ma se la società continua a ignorare questo sentire popolare, rischia di provocare una frattura.
I cori, intanto, restano la colonna sonora di ogni partita, il legame più puro tra la storia e il presente del Milan. “Forza lotta vincerai, non ti lasceremo mai” è un inno alla resilienza. “Milan Milan alé” è un richiamo d’orgoglio che scuote lo stadio anche nei momenti più bui. E poi ci sono i classici da trasferta, “ci facciamo i chilometri”.
In curva non si canta solo per esaltare. Si canta anche per chiedere. Per contestare. Per mettere pressione. Striscioni come “Cardinale vattene” o “Questa società non ci merita” sono stati appesi in più di un’occasione. E oggi, un coro che si sente spesso è diventato quasi un manifesto: “Scaroni Uomo di M…. ”. La pazienza è finita. E la passione, se tradita troppo a lungo, può ribellarsi.
VI – La sconfitta col Bologna e il disastro
E poi c’è il paradosso. Perché, a guardarla da fuori, questa stagione del Milan non è stata totalmente un disastro. Grazie, soprattutto, ad una grande gioia: aver battuto l’Inter. Due volte. Perché il derby è sempre il derby.
Il Milan ha fermato l’Inter sul più bello. Ha ridimensionato le velleità nerazzurre. Ha tenuto alta la bandiera. Ma è un’illusione. Perché la sconfitta contro il Bologna, in casa, con la curva ammutolita, è stata lo specchio perfetto del vuoto. Una squadra senza grinta. Senza cuore. Senza guida.
Il Milan oggi è un corpo senza testa. E chi ama davvero questi colori lo sa.
E poi, in mezzo a tutto questo caos, c’è un’altra verità che rende la stagione meno amara. Il Milan ha comunque vinto qualcosa. Non solo partite, ma battaglie vere. Ha conquistato la Supercoppa Italiana, battendo la Juventus in semifinale e poi piegando l’Inter in una finale bollente. Un trofeo vero, messo in bacheca a dispetto delle difficoltà.
Ma non solo. I rossoneri hanno anche eliminato l’Inter dalla Coppa Italia in semifinale, con un’altra prestazione di cuore e intelligenza tattica. Due trofei, due competizioni. E in entrambe, il Milan ha avuto la meglio sui cugini nerazzurri, ridimensionandone i sogni di gloria assoluta.
Perché se è vero che l’Inter arrogantemente ha puntato al triplete – che da Appiano Gentile qualcuno aveva iniziato a sussurrare – quel sogno è svanito proprio grazie al Milan. Il Milan, anche in un’annata confusa, ha avuto la forza di rialzarsi nei momenti chiave, come un pugile esperto che sa dove colpire per far male. E se c’è una consolazione in questo presente incerto, è proprio questa: il Diavolo, anche quando barcolla, riesce ancora a bruciare.
VII – Cosa vogliono i tifosi adesso
Il popolo rossonero ha parlato. Chiaramente. Senza diplomazia. Vuole che Gerry Cardinale faccia solo due cose:
- Costruire lo stadio. Subito. Per dare una casa vera al Milan, per liberarsi dal peso della politica milanese, per iniziare un nuovo ciclo. San Donato, Sesto, dove vuole. Ma deve iniziare. E ora.
- Vendere e sparire. Perché il Milan non è un fondo. Non è un asset. È una fede. E chi non la capisce, non può guidarla. I tifosi vogliono una proprietà che sappia sognare, che investa, che costruisca. Che ami il Milan.
Gerry Cardinale ha portato il Milan a galleggiare. Ora deve fare l’ultimo atto da manager: cedere la mano. Perché il Milan non può vivere senza DNA, senza spirito, senza anima. E oggi, quella anima, non c’è più.
Il Milan non può più aspettare. Serve una svolta. Serve un nuovo inizio. Serve una guida vera. Perché la storia non si riscrive con i fondi d’investimento. Si scrive sul campo. Con il cuore. Con il sudore. Con le lacrime.
Come dice un altro coro della Sud:
“Vivo solo per te”