C’è “Nane Malta”, onesto lavoratore costretto ad ingoiare ogni giorno l’immagine di un cugino di successo. C’è “Tranquia Rodegona”, sua moglie, casalinga tutrice delle tradizioni. La figlia, Alessia, detta “Lessy” per un amore per il futuro e le innovazioni che arrivano dalla Merica. E poi a scombinare tutto il cugino svizzero di Nane, Checco, che oltre ad aver fatto successo si presenta pure con una compagna, o meglio, “morosa”, tutta avvinghiata nel suo boa rosso fuoco e ricca di esperienze e di schei: Etoile.
Sono questi gli ingredienti di “Amor e disonor”, messo sul palco dalla compagnia “Le Tradizioni” di Giavera del Montello. La commedia in due atti è andata in scena domenica 20 ottobre al centro Noè Bordignon di Castelfranco Veneto, nel Trevigiano, per supportare la Caritas locale (a proposito: consegnano 120 buste della spesa a settimana, la povertà anche nella castellana è in crescita e vanno sostenuti in ogni modo, anche con la “spesa sospesa” alla Coop).
Un paio di ore di dialoghi serrati, proverbi e detti veneti che gocciolano sul palco a ritmo incalzante, a rappresentare le verità dei veneti del secondo dopoguerra. Una commedia che vuole affrontare il tema dell’emigrazione che agli inizi degli anni ’60 del secolo scorso, ancora era presente nel “Veneto poentòn”, ma che serve per rileggere le storie di emigrazione che altri oggi sono costretti a vivere.
La trama è commovente nella sua eticità. Nane (interpretato da uno spettacolare Franco Martini, la scena del suo pediluvio vale uno spettacolo di Zelig) torna a casa stanco da lavoro e deve affrontare la routine quotidiana. La moglie, Tranquia (epica l’interpretazione di Maria Luisa Gallina, che consuma ogni energia per tradurla in amorevole rabbia) lo accoglie insoddisfatta per la povertà nella quale è costretta a vivere: giornate ritmate dai lavori domestici, dal poco cibo in tavola e dall’invidia per Checco, quel cugino che ebbe il coraggio di andare in Svizzera, dove trovò successo. In questo contesto contadino, la luce della novità arriva da Alessia (Martina Durante) che è giovane e innamorata, sogna la modernità e l’emancipazione, che al tempo era semplicemente invitare a casa il fidanzato del tempo.
L’elemento di rottura in questa dinamica di conflitti casalinghi, resi ilari da una raffica di battute, sfottò e detti popolari che rappresentano le “verità condivise” di un tessuto culturale ed economico in cui i veneti sono cresciuti, è l’arrivo di Checco, accompagnato da Etoile (Sara Durante, che nella vita è sorella di Martina e nell’opera è una sorta di suo alter ego emancipata). Il cugino, però, invece di portare sollievo (e magari qualche “carta da mille”), sta orchestrando una trama per incastrare il buon Nane Malta.
Il resto non lo spoileriamo, se non per dire che nel finale tutto torna in equilibrio e appare nell’epifania di un abbraccio il significato del titolo della commedia di Santo Capizzi, magistralmente elaborata e quindi diretta dalla regista Nila Bettiol.
Un’opera che la compagnia “Le Tradizioni” di Giavera del Montello considera il suo fiore all’occhiello, dopo 25 anni di teatro: il gruppo nasce nel 1999 e dal 2002 aderisce alla Fita, la Federazione italiana teatro amatori; da allora ha portato sul palco una dozzina di rappresentazioni grazie al lavoro di un gruppo di volontari: Mauro Salvador e Carlo Merlo (audio e luci), Carmen Baldinetti e Ivana Parolin (assistente di scena e costumi), Carla Florinda e Manuela Durante (trucco e acconciature), Guido Arca, Bruno Zanatta, Roberto Pozzebon, Emmarita Tomietto, Ivo Agnoletti, Luigi Liberali e Renato Martini (scenografia e allestimento).
“La compagnia si permette di ridicolizzare i personaggi – si legge nelle note di regia – e non certo per deridere il dramma dell’emigrazione, quanto per imparare a riconoscerne le ricchezze che ognuno di noi possiede”. Precisazione forse ridondante, lo stile altamente ironico e coinvolgente dà per scontato che qui si tratta di un dramma umano vero, emozionale, eterno. Attraverso la chiave di lettura del dialetto veneto e degli anni Sessanta (c’è molto profumo di Montello e di Muson, l’inclinazione dialettale è trevigiana prima ancora che veneta), in realtà, si mettono in discussione valori eterni.
Il rispetto, contro la falsità. L’onestà, contro l’inganno. La famiglia, contro la menzogna dei finti rapporti. L’altruismo, contro l’egoismo. “Amor e disonor”, appunto.
Bravi, bravissimi. Perché opere di questo spessore non solo aiutano a commuoversi o a ridere, ma soprattutto sono cinghie di trasmissione di una cultura, quella del dialetto veneto e dei suoi detti, che a poco a poco rischia di venir cancellata dalla mareggiata internazionale che Lessy desidera, ma che quando arriva porta onde nere, quelle che cancellano anche i valori cardine sui quali si fonda la società rurale che ha portato questo territorio dalla povertà alle vette economiche.
Il resto sono applausi, lunghissimi e dolcissimi applausi.